Chiesa rupestre Santa Margherita di Antiochia a Melfi
Il luogo di culto del Vulture
Alla nostra cartina dei luoghi da visitare aggiungiamo un’altra perla che si trova in Basilicata, ossia la Chiesa rupestre di Santa Margherita di Antiochia a Melfi. Non ci sono documenti storici che ne attestino l’origine, non si sa chi l’abbia voluta e lo scopo per cui sia stata costruita, ma molto a riguardo è stato scoperto. Gli elementi architettonici sono stati fondamentali a stabilire la datazione dell’impianto che è del XIII secolo. Il cenacolo, l’unica parte del luogo di culto non affrescato, è sproporzionato rispetto alla chiesa, il che fa supporre che la chiesa sia stata molto frequentata dai monaci del Vulture. La presenza nelle pareti di alcuni fori quadrati per l’alloggiamento delle travi in legno, utilizzate per le impalcature, porta a ipotizzare l’intenzione di completare tutte le superfici della cripta.
Chi l’ha voluta?
Per quanto riguarda chi l’abbia voluta, l’ipotesi più accreditata è quella che sia l’ex voto di una donna che ha ricevuto una grazia durante il parto. La chiesa rupestre è dedicata, infatti, a Santa Margherita di Antiochia, la protettrice delle partorienti. La santa ausiliatrice è affrescata su due pareti della cripta: alla cappella dedicata a San Michele Arcangelo e al centro dell’abside, in compagnia di San Pietro, alla sua sinistra e San Paolo a destra ritratto con in mano il libro, il simbolo iconografico che rimanda alle sue lettere. La chiesa scavata interamente nel tufo vulcanico dai monaci, è a navata unica con un arco carenato, che divide l’ambiente in due campate coperte da volte a crociera a sesto acuto. Sulle pareti laterali si aprono quattro cappelle a volte.
Gli affreschi
Gli affreschi alle pareti dell’impianto, partono dalla seconda metà del 1200, testimoniano un periodo storico e artistico di cambiamento. Sono diversi tra loro da un punto di vista stilistico, nonostante il lasso di tempo di realizzazione sia relativamente breve. Alcuni si rifanno al tardo bizantino, mentre altri “parlano” romanico e sono un bel esempio di convivenza pacifica e dialogo tra gli artisti che si rifanno alla tradizione e quelli che sono pronti a sperimentare le novità del momento.
La chiesa rupestre “fotografa” il periodo a cavallo tra la dominazione sveva e quella angioina. È il fotogramma di un periodo di passaggio tra il rito orientale e quello occidentale, quello dell’esperienza monastica basiliana, che mise radici in Italia meridionale, in seguito all’editto emanato nel 726 dall’imperatore bizantino Leone III Isaurico e quello dell’esperienza benedettina.
Le curiosità dell’affresco
Focalizziamo solo alcuni dettagli del ciclo pittorico in modo da lasciare il piacere della scoperta. Il primo: il Cristo in trono ritratto col volto giovane, senza barba e sorridente, l’immagine si allontana fortemente dall’iconografia classica. Secondo: la presenza dell’affresco di San Bartolomeo il protettore di Melfi dal basso medioevo fino al XVII secolo, quando “passò il testimone” a Sant’Alessandro ed infine il terzo: l’incontro tra i vivi e i morti.
Quest’ultimo affresco è molto interessante dato che la paura della morte è per eccellenza il tema sul quale l’uomo riflette. Nel ciclo melfitano è ritratta in modo singolare. Occorre un pregresso, il tema dell’incontro tra i vivi e i morti appare per la prima volta in un poemetto francese detto dei tre morti dei tre vivi. Il racconto riguarda tre nobili cavalieri durante una battuta di caccia. I tre protagonisti della storia vengono ammoniti dagli scheletri sulla caducità della vita terrena, “voi sarete quello che noi siamo”.
Le ipotesi che riguardano l’affresco dei vivi e dei morti
Lo studioso Lello Capaldo ha avanzato una proposta sull’identità dei tre vivi dell’affresco della Chiesa rupestre di Santa Margherita di Antiochia a Melfi. Egli afferma che è rappresentata la famiglia imperiale degli Hohenstaufen in abiti da falconieri, proprio come gli abitanti di Melfi erano soliti vederla. Nello specifico l’uomo con in mano il falco è l’imperatore Federico II. I rapaci sono molto amati e sono il soggetto del famoso libro scritto proprio dallo svevo, il De arte venandi cum avibus. La seconda figura ritratta è la terza moglie dello Stupor Mundi, Isabella d’Inghilterra ed infine il figlio di lui Corrado IV.
Le conferme
Diversi sono gli elementi individuati che spingono a vedere nell’affresco la famiglia dell’imperatore più volte scomunicato, dalla grandezza rimasta lucente ed immutata nei secoli. La barba rossa, il mantello color porpora bordato di pelliccia d’ermellino, i simboli regali e la daga orientale rimandano proprio la figura di Federico II. I capelli biondi e gli occhi azzurri della donna al suo fianco sono tratti nordici riconducibili a Isabella. Infine Corrado IV, il figlio di Federico e della sua seconda moglie, Iolanda di Brienne, anche lui biondo proprio come il suo fratellastro Manfredi.
Il numero otto
I tre personaggi, quelli vivi, portano con loro una borsa di caccia con un fiore a otto petali, simbolo caro a Federico. Ricordiamo che lo stesso simbolo è stato ritrovato come sigillo sull’anello e ricamato sulle vesti delle spoglie mortali dell’imperatore. Il numero otto e l’ottagono è una sorta di firma dell’imperatore, che a Castel del Monte ad Andria, trova la sua massima espressione, diremmo quasi ossessiva, di quel capolavoro dell’architettura ritratto sulle nostre monete di due centesimi di euro. Nell’affresco è facilmente riconoscibile un iris a tre punte, un altro antico simbolo di regalità, ulteriore elemento che rafforza l’ipotesi di Capaldo. La narrazione dell’affresco e la morale sono evidenti, tutti, nessuno escluso, sono destinati alla medesima sorte, anche la famiglia imperiale. Per i fedeli della zona che giungevano alla chiesa, i protagonisti dell’affresco assumevano una maggior valenza e impatto.
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Questo articolo è stato scritto ascoltando: Interstellar – Main Theme – Hans Zimmer